OTTONE ROSAI

1895-1957
Ottone Rosai nasce il 28 aprile 1895 in via Cimabue, nel cuore di uno dei vecchi quartieri di case popolari di Firenze.
Il nonno paterno, valente intagliatore, aveva lasciato in dote ai propri discendenti una bottega d’antiquariato con laboratorio artigiano annesso, ma la speranza di Giuseppe di indurre il giovane erede a continuare la tradizione di famiglia viene ben presto delusa: egli, infatti, si iscrive all’Istituto d’Arti Decorative in piazza Santa Croce, dove, peraltro, non rimane che per poco tempo. Successivamente frequenta il Regio Istituto di Belle Arti: i risultati dei corsi di studio sono buoni, con punte di eccellenza. Tuttavia, dopo un diverbio con il maestro Calosci, viene immediatamente cacciato. Inadatto alle costrizioni, l’insofferente allievo trascorre la stagione dell’adolescenza in modo dispersivo, consolidando quelle che saranno le costanti della sua vita: la passione per le sale da gioco, i caffè, il biliardo, la vita notturna e stradaiola. Del novembre 1913, a Firenze, in un locale di via Cavour, la sua prima mostra di pittura insieme a Betto Lotti. Nella medesima strada, dal libraio Gonnelli, è contemporaneamente allestita quella dei futuristi di Lacerba: condotti da Papini, questi una sera visitano la vicina esposizione e, colpiti dalle opere, ricorda Rosai, «mi fecero elogi che ricevetti come enormi ricompense e mi invitarono a unirmi a loro». Conosce, così, Marinetti, Boccioni, Palazzeschi, Carrà, Severini e Soffici, che gli sarà amico, maestro e punto di riferimento per tutti gli anni Venti, facendogli scoprire, fra l’altro, l’innovativa lezione di Cézanne e il cubismo di Picasso. Nel 1915, in coincidenza dell’inizio della prima guerra mondiale, si arruola come volontario: verrà decorato più volte per atti eroici. I ricordi di quel periodo sono raccolti in alcune pagine del Libro di un teppista (1919) e più diffusamente ripresi nel volume Dentro la guerra (1934). Fra il 1919 e il 1920 orienta la propria ricerca espressiva verso altri orizzonti: tele e disegni di piccole dimensioni che rimangono fra gli esiti più significativi dell’arte italiana del Novecento. Nel novembre 1920 espone alcuni fra i migliori lavori del periodo in una mostra personale ordinata nelle sale di Palazzo Capponi, a Firenze. Fernando Agnoletti tiene il discorso inaugurale; Soffici e de Chirico la recensiscono sui giornali  in modo lusinghiero. Nel febbraio 1922 un lutto gravissimo cambia la sua vita per sempre: il padre, oppresso dai debiti, si suicida gettandosi nelle torbide acque dell’Arno. Il mantenimento della madre e della sorella sono ora a suo carico, costretto com’è, dal funesto accadimento, a mandare avanti da solo l’impresa di mobiliere, oltretutto fra enormi difficoltà finanziarie. Per aiutarlo a superare il terribile momento vengono organizzate di lì a poco due mostre, entrambe presentate da Soffici: la prima, in marzo, presso la Saletta Gonnelli di Firenze; la seconda, in novembre, alla Casa d’Arte Bragaglia di Roma. Quest’ultima si conclude in modo piuttosto deludente: scarsi il pubblico e le vendite, indifferente la critica. Il 17 aprile 1924 sposa la ventiseienne Francesca Fei, un’impiegata del giornale La Nazione conosciuta nel 1921. Sono anni, questi, di dolorosa indigenza e amara solitudine, che lo obbligano a vendere, a poche lire, persino gli oggetti di casa e i quadri più belli per saldare i conti in sospeso dell’esercizio commerciale avuto in sorte. Solo nel 1927 riprenderà a dipingere con una certa continuità, ma, tre anni più tardi, amareggiato dai pochi acquisti che si contano a una sua mostra tenutasi presso la galleria Il Milione di Milano, smarrisce di nuovo ogni motivazione. Intanto la situazione economica, personale e familiare, si fa sempre più grave. Nel 1930 pubblica Via Toscanella, una raccolta di scritti edita da Vallecchi. L’anno seguente è autore di un opuscolo polemico, Alla Ditta Soffici-Papini & Compagni, che segna la rottura con i vecchi amici e con Carlo Carrà. Alla fine dell’anno la svolta decisiva: affida alla moglie il compito, gravoso, di condurre a termine la disastrata odissea della bottega e affitta, nella zona di Villamagna, un casotto, che era stato del dazio, da adibire a studio. Ché, più forte di tutto, è la voglia di tornare a dipingere in un certo modo. La mostra fiorentina di Palazzo Ferroni (1932) ottiene grande successo, mentre due anni più tardi la presenza alla Biennale di Venezia contribuisce ad accrescere l’interesse attorno a lui di critici e i collezionisti. Ciò rafforza l’impegno e la convinzione dell’artista, che, nel frattempo, si è trasferito nel nuovo studio in via San Leonardo. Sul finire del febbraio 1936 si inaugura la personale al Lyceum di Firenze. Con il discorso inaugurale intitolato «Difesa», poi pubblicato nel numero di marzo della rivista Il Frontespizio, Rosai spiega le ragioni della propria arte che «tenta di esprimere il sentimento dell’universo». Espone, nello stesso anno, tre opere alla Biennale di Venezia. Stringe amicizia con Montale e con i giovani poeti ermetici. Tra gli scrittori, privilegia le frequentazioni con Gadda e Landolfi, ma il rapporto più profondo è forse con Bilenchi. Nel 1942 gli viene assegnata la cattedra di pittura dell’Accademia di Firenze. Trascorre l’estate con Piero Santi a Chiesanuova, un paesino di campagna di poche case a breve distanza da Firenze. Terminato il secondo conflitto mondiale, trascorre ancora qualche anno prima che Rosai riprenda la consueta attività espositiva, partecipando a mostre internazionali che lo vedono protagonista, dal 1950 in poi, anche a Parigi, Zurigo, Londra e Monaco di Baviera. Ovunque l’apprezzamento è unanime. Nel 1951 pubblica, con prefazione  di  Carlo  Bo, Vecchio autoritratto, che raccoglie la sua letteratura più nota (Il libro di un teppista,
Dentro la guerra, Via Toscanella; una seconda edizione del volume, con il titolo Ricordi di un fiorentino è del 1955). Vince ex aequo con Gianni Vagnetti il II Premio del Fiorino. Nel 1952, alla Biennale di Venezia, gli viene dedicata un’intera sala, ma i critici membri della giuria per l’assegnazione dei premi gli negano il riconoscimento ufficiale. Ottiene un premio minore, che, a ragione, gli sa di beffa: ne fanno le spese Pio Semeghini, presidente della Biennale, e Giovanni Conti, che si busca un ceffone dall’incollerito collega. Rosai supera anche questo smacco, mettendosi a lavorare con rinnovata determinazione. Nel 1953 La Strozzina di Firenze, con lo spirito di risarcire il pittore per «l’episodio sconcertante di Venezia», gli dedica un’importante mostra. Assume un segretario ed acquista un’automobile. Nel 1954 è nuovamente invitato alla Biennale di Venezia. Alla fine dell’anno si manifestano i primi sintomi dei disturbi al cuore che saranno la causa della sua morte. Partecipa con soddisfazione alla Quadriennale di Roma (1955) e in alcune esposizioni, dagli esiti lusinghieri, che si tengono a Bologna, Genova e Milano; in seguito, anche in alcune città europee. Nel primavera 1957 Pier Carlo Santini organizza ad Ivrea, presso il Centro Culturale Olivetti, una sua importante rassegna antologica incentrata sulla figura umana. Rosai vi si reca il giorno prima dell’inaugurazione per curare personalmente l’allestimento, ma, al volgere della notte, còlto da infarto, muore. È il 13 maggio